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Immagine tratta da: inpho.ie |
La storia del campionato della Juventus sembra essere stata
scritta da uno sceneggiatore amante del lieto fine o, per certi aspetti,
addirittura dai fratelli Grimm. In effetti, quest’anno i tifosi bianconeri
hanno vissuto una vera e propria favola che permette loro di andare sui social
network e in giro per i bar a prendersi parecchie rivincite nei confronti dei
loro amici-rivali antijuventini. Ce li immaginiamo, tronfi e gagliardi come non
li si vedeva da anni, a deridere il barista milanista che parla del goal di
Muntari mentre con le mani nascoste dietro il bancone pubblicano dal loro
smartphone link con le tre stelle sulla bacheca di Guido Rossi. Come dargli
torto, come non comprendere una tale esaltazione: tornare a vincere dopo anni
di sofferenze e umiliazioni mai provate, di vittorie altrui; tornare a vincere
quando nessuno se l’aspettava, contro i rivali di sempre, dopo una lunga corsa
col brivido finale; tornare a vincere con il vecchio capitano che fa
l’allenatore, un presidente che di cognome fa Agnelli, nell’anno del nuovo
stadio e, come se non bastasse, tornare a vincere con la griffe di capitan Del
Piero che fa un gol decisivo contro la Lazio e un altro alla partita d’addio. Insomma,
poche volte l’orgoglio juventino ha raggiunto picchi così elevati.
Questa vittoria così dolce non è frutto del caso ma di un
lavoro meticoloso, quasi perfetto. Dopo anni di scelte sbagliate la Juventus è
riuscita a ritrovare l’identità che aveva smarrito ripartendo, semplicemente,
dal suo nome: Juventus, la vecchia signora. Ovvero, gioventù ed esperienza,
innovazione e tradizione. Concetti solo apparentemente contrastanti perché
tutto nella Juventus di quest’anno è stato una perfetta simbiosi tra vecchio e
nuovo, uniti in una perfetta complementarità; basti pensare che nell’ultima partita di campionato ha
segnato prima il “canterano” Marrone e poi capitan Del Piero.
Il presidente e la dirigenza hanno capito che c’era bisogno
di ripartire da idee all’avanguardia, da una freschezza innovatrice che
portasse un nuovo entusiasmo, capace di togliere le ragnatele in un ambiente
caduto da anni in una angosciante decadenza. Ed ecco finalmente lo Juventus
Stadium, un simbolo di modernità e rinnovamento; giocatori giovani e “affamati”;
un calcio piacevole, veloce, spettacolare che in Italia si è visto raramente (e
ancor più raramente è stato anche vincente).
Allo stesso tempo, però, si è cercato di mettere al centro
del nuovo progetto la storia della Juve, la sua tradizione e di ritrovare la
sua atavica voglia di vincere. In effetti, il nuovo stadio è pieno di richiami
orgogliosi alla storia bianconera; ai giocatori più giovani sono stati
affiancati anziani che quella storia in parte l’hanno fatta e quello spirito
vincente ce l’hanno ormai nel sangue; e quella squadra brillante e propositiva,
non dimentichiamolo, è stata anche quella che ha subìto meno goal di tutti,
riuscendo a coniugare il bel calcio con quella che è per tradizione l’arma più
efficace del calcio italiano: la meticolosa preparazione della fase difensiva.
Oltre al quarantenne Andrea Agnelli, presidente da soli due
anni ma il cui cognome garantisce una certa continuità col passato, colui che è
la vera e propria personificazione di questa juventinità dalle due anime è
Antonio Conte. Un allenatore giovane, moderno, che crede nella sperimentazione,
nell’imprevedibilità, nell’innovazione continua e che per praticare la sua idea
di calcio ha bisogno di tanta energia e entusiasmo di gioventù. Ma Antonio
Conte è anche una persona che ha nel DNA quell’antico spirito vincente, quella
voglia irrefrenabile di essere il più forte, che permetteva alla Juve di
vincere contro i pronostici, contro le squadre piene di campioni. Come il bacio
di una principessa trasformava i ranocchi in principi, così quella maglia
bianca e nera trasformava i Porrini, i Torricelli, i Ravanelli, i Tacchinardi e
tanti altri da giocatori normali in vincenti spietati. Conte ha ripetuto questa
magia creando una squadra che, più che la Juve-corazzata di Capello ricorda la
Juve delle grandi imprese, quella del cross di Birindelli per Zalayeta al Camp
Nou che –secondo l’umile parere di chi scrive- ricorda tanto il cross di Pepe
per l’ uno a uno (o due a due) di Matri a San Siro.
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