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mercoledì 22 maggio 2013

LE NOZZE D'ORO DELLA PRIMA COPPA DEI CAMPIONI

Immagine tratta da enhonoralaredonda.blogspot.com
22 maggio 1963: sono passati 50 anni da un giorno molto importante per tutto il calcio italiano, anche se adesso in pochi ci fanno caso o se ne ricordano. In una serata fresca ma gradevole secondo il commento del grande Niccolò Carosio, nel mitico stadio di Wembley (quello di una volta, non quello nuovo che a breve ospiterà la finale di Champions League), il Milan batte il Benfica al termine di una sfida dura ed equilibrata e regala all'Italia la prima Coppa dei Campioni della sua storia. E' il successo del calcio di Nereo Rocco, a cui seguiranno due vittorie dell'Inter di Herrera e un dominio costante per Milano e per il nostro football, durato tutti gli anni Sessanta.
I rossoneri arrivano a giocarsi la partita decisiva dopo aver disputato una grande annata in coppa: superano i lussemburghesi dell'Union con il punteggio record di 14-0, poi eliminano Ipswich Town, Galatasaray e Dundee United. Il mattatore della squadra e del torneo è Josè Altafini, che chiuderà la coppa con 14 reti all'attivo, un record eguagliato solo di recente in Champions da Lionel Messi, ma tutto il gruppo va alla grande, trascinato dal ventenne Gianni Rivera e dall'esperto Cesare Maldini, oltre che da gente di livello come Trapattoni, il portiere Ghezzi, Mora e Pivatelli. Il vero condottiero però è il tecnico Nereo Rocco, campione d'Italia l'anno precedente e benvoluto da tutti i suoi giocatori, con cui condivide anche la doccia e che tratta come suoi figli. Il campionato in questa stagione non è stato proficuo, i rossoneri lo chiudono al terzo posto, dietro l'Inter e la Juventus, ma il successo in coppa cambierebbe tutto. Già qualche anno prima i rossoneri, guidati in campo da Liedholm e Schiaffino, erano arrivati ad un passo dal successo, sconfitti in finale nel 1958 dal Real Madrid di Gento e Di Stefano, e adesso non possono accettare un altro secondo posto. L'avversario però è decisamente più ostico dei precedenti, il Benfica viene da due successi consecutivi in Coppa dei Campioni, e anche se ha mandato via il tecnico vincente Bela Guttmann (con annessa maledizione) ha una formazione di tutto rispetto, con campioni come il capitano Coluna, Josè Augusto, Torres, Simoes. Soprattutto, il nemico numero uno è il centravanti Eusebio, esploso da poco e già diventato una stella del calcio europeo, un attaccante estremamente veloce e con un tiro micidiale, che lo renderanno uno dei bomber più prolifici di tutti i tempi.
La partita non inizia bene per il Milan, che soffre terribilmente il palleggio dei lusitani e deve difendersi dai suoi attacchi iniziali. Rocco fa fatica a comunicare con i suoi ragazzi perchè le panchine, a differenza dell'Italia, sono su un piano rialzato rispetto al campo, e deve affidarsi al suo secondo perchè parli con il portiere Ghezzi e riferisca tutti i suoi suggerimenti ai compagni. Dopo neanche venti minuti, Eusebio sfrutta una delle opportunità a sua disposizione per realizzare la rete del vantaggio dei portoghesi. Il Milan reagisce, cerca subito di pareggiare, ma Altafini non sembra in gran forma e spreca alcune occasioni importanti, così il primo tempo si chiude con i lusitani in vantaggio. Nella ripresa, i rossoneri partono subito molto determinati, e stavolta Altafini sfrutta al meglio un pallone sporco ai limiti dell'area per spedirlo in rete e pareggiare i conti. La sfida diventa molto più tattica, entrambe le squadre cercano il colpo decisivo ma al tempo stesso hanno paura di scoprirsi e perdere la sfida. Santana ha una grande occasione per il Benfica ma la spreca, e poco dopo il capitano Coluna si fa male in uno scontro di gioco e termina la gara zoppicando (all'epoca le sostituzioni non erano permesse), costringendo di fatto la squadra a giocare in dieci e senza uno dei suoi leader. Al minuto 66, un pasticcio della difesa lancia Altafini solo davanti al portiere in posizione regolare, il centravanti si fa parare la prima conclusione ma raccoglie la ribattuta e riesce a metterla dentro, per la gioia dei suoi compagni che già lo insultavano: "Stavi per sbagliare anche questa!". La partita di fatto finisce qui, gli attacchi dei portoghesi si infrangono contro la solida difesa rossonera, e al triplice fischio finale può esplodere la gioia degli italiani, con capitan Maldini che sale le mitiche scale di Wembley e alza al cielo la coppa, un gesto che suo figlio Paolo ripeterà sempre in Inghilterra, a Manchester, quarant'anni dopo.
L'annata favolosa dei rossoneri non avrà seguito, o almeno non nell'immediato. Rocco, nonostante le pressioni della società per farlo restare, onora un accordo che aveva già preso con il Torino e lascia Milano, mentre la squadra non riesce a mantenersi competitiva nelle stagioni seguenti. Il primo traguardo, l'Intercontinentale, sfuma dopo tre durissime sfide contro il Santos di Pelè, in campionato l'Inter finisce costantemente davanti ai "cugini", e in Coppa Campioni la difesa del titolo si ferma ai Quarti di Finale contro il Real Madrid, che poi perderà la finale proprio contro l'Inter di Herrera. Servirà il ritorno di Rocco, nel 1967, per rifare grande il Milan, con alcuni protagonisti diversi e vecchi giocatori come Rivera, Trapattoni e Lodetti ormai divenuti campioni affermati. Restano però la grandezza e l'importanza dell'impresa di quel Milan del 1963, che esattamente cinquant'anni fa ebbe il merito di portare per la prima volta il calcio italiano sul tetto d'Europa, inaugurando una stagione di grandi successi che ebbe ripercussioni positive anche sulla Nazionale, in larga parte formata da elementi delle due squadre. Anche oggi, a distanza di mezzo secolo, non possiamo che celebrare il Paron Rocco e i suoi ragazzi, capaci di alzare la prima di tante "coppe con le orecchie" che hanno reso, nonostante momenti di buio e la crisi economica e tecnica degli ultimi anni, il calcio italiano una delle realtà più affermate e vincenti in Europa e nel Mondo.

domenica 17 febbraio 2013

MJ, I 50 ANNI DEL RE DEL PARQUET

Immagine tratta da mentalwod.com
Ci sono giocatori che sono universalmente riconosciuti in tutto il mondo come uomini-simbolo dello sport che hanno praticato per anni. Atleti straordinari, campioni con la mentalità vincente, personaggi dentro e fuori dal campo. Quando si pensa al basket, tutti gli appassionati pensano immediatamente ad un solo nome: Michael Jordan. Una stella assoluta, inarrivabile, un giocatore dal talento immenso e dalla forza di volontà ancora più grande, un campione che non ha mai smesso di migliorarsi per rimanere il più forte. E anche per questo, oltre che per tutto quello che ha fatto vedere sui parquet americani e mondiale, è unanimemente riconosciuto come  il più forte giocatore di basket di tutti i tempi. Oggi questo fuoriclasse taglia il prestigioso traguardo dei 50 anni di vita, ed è più che doveroso dedicare a lui questo articolo.
A differenza di molti campioni dello sport, Michael non è un predestinato, si vede che ha buone doti fisiche e atletiche, ma nessuno ha ancora capito che cosa può diventare. A quindici anni, quando si presenta alla Laney High School, il liceo della sua città, per entrare nella squadra di basket, l'allenatore gli preferisce un altro ragazzo perché lo vede troppo magro e basso per questo sport. Qualche anno dopo, nel draft Nba del 1984, Jordan non è la prima scelta assoluta, prima di lui vengono selezionati i centri Hakeem Olajuwon, che diventerà una stella, e Sam Bowie, atleta promettente ma penalizzato dagli infortuni. Con il tempo, però, tutti cominciano a rendersi conto di chi hanno davanti, e di quanto questo giocatore possa fare non solo per il basket americano, ma per quello mondiale. I Chicago Bulls, la squadra che decide di sceglierlo, passano da una delle formazioni più scarse d'America a una delle più promettenti nel giro di pochi anni, costruendo lentamente la squadra intorno ad MJ e lasciando che cresca insieme a lui. Jordan non è solo un atleta fantastico, è un leader in campo e fuori, ha una durezza mentale incredibile, non pensa che a migliorarsi e a vincere, e in questo motiva tutti i suoi compagni e comincia a far sperare una città che non è mai stata grande.
Arrivano i primi spot televisivi, Michael diventa presto una star in tutto il pianeta non solo per le sue imprese sportive, in campo segna più punti di tutti per diverse stagioni e delizia i tifosi nelle gare delle schiacciate. Mancano ancora i successi, perché la squadra non è ancora pronta, e gli avversari di turno, i durissimi Detroit Pistons di Isiah Thomas, sono troppo forti e motivati per lasciarsi sconfiggere. Decisiva è l'estate del 1989, quando la dirigenza di Chicago sceglie come allenatore Phil Jackson e decide di non rivoluzionare la squadra, confidando in una sua crescita con il nuovo coach. Con la sua nuova guida, Jordan e i Bulls perfezionano ulteriormente il gioco, e finalmente arrivano le vittorie, tre di fila, dal 1991 al 1993, contro fenomeni come Magic Johnson, Clyde Drexler e Charles Barkley. Michael è già su un altro livello rispetto ai grandi del passato, molti già lo vedono come il più forte di sempre, ma intanto in lui qualcosa cambia, l'amore per il basket sembra scemare. La morte del suo amatissimo padre, ucciso in una rapina per una macchina che lui stesso gli aveva regalato, lo segna ulteriormente, e lo spinge ad annunciare il ritiro dal mondo del basket, a poco più di trent'anni.
Torna a un'altra sua grande passione dell'infanzia, il baseball, gioca in alcune squadre minori di Chicago con risultati modesti, e senza di lui Chicago affonda e l'Nba si sente come privata di una delle sue stelle più luminose. Dopo un anno e mezzo, Jordan sente tornare le motivazioni, e in una conferenza stampa fa esultare i tifosi di tutto il mondo con tre sole parole: I'm back, sono tornato! Dopo un anno di rodaggio e un'estate di intensi allenamenti, Michael trascina i Bulls ad un nuovo successo e ad un incredibile record di 72 vittorie e 10 sconfitte in stagione regolare, risultato mai ottenuto prima nella storia della Nba. Arriveranno altri due titoli consecutivi, in finali durissime contro gli Utah Jazz di John Stockton e Karl Malone, poi il secondo ritiro di MJ, quello che sembra definitivo questa volta, visti i trentacinque anni e gli incredibili risultati ottenuti. Si dedica al golf, altra sua passione, e alla gestione dei Washington Wizards, ma nel 2001 decide di dare un ulteriore aiuto alla sua nuova squadra tornando clamorosamente a giocare. Lo fa per due anni, senza ambizioni di successo, senza bisogno di dimostrare nulla a nessuno, solo per amore del basket. La squadra non fa miracoli, lui continua a far vedere che la classe non si annacqua nemmeno con gli anni, ma ormai il suo tempo è finito. Nel 2003 si ritira per la terza e ultima volta, con la media punti più alta nella storia della Nba in stagione regolare e playoff e al terzo posto della classifica marcatori di tutti i tempi.
Campione universitario nel suo anno da matricola nel 1982, sei volte campione Nba e in tutte le occasioni Miglior Giocatore delle finali, cinque volte Miglior Giocatore della stagione, dieci volte miglior marcatore del campionato, quattordici partecipazioni all'All Star Game e tre titoli di Miglior Giocatore, due ori olimpici, il primo nel 1984 quando era ancora un universitario, il secondo da stella assoluta con il leggendario Dream Team nel 1992. I titoli non bastano a spiegare che cosa è stato MJ per il basket di tutto il mondo, non bastano a far capire la grandezza di questo personaggio, quanto il suo modo di interpretare il gioco abbia cambiato il basket, portandolo ad un ulteriore livello che mai si era visto prima. Tantissimi sono i momenti memorabili che ha regalato ai tifosi di tutto il mondo, come il Tiro (con la T maiuscola) con cui vinse il suo ultimo titolo Nba nel 1998, a pochi secondi dalla fine, o le schiacciate partendo direttamente dalla linea del tiro libero, come se stesse volando nell'aria. Magic Johnson lo dichiara il più forte di sempre dopo essere stato suo compagno nelle Olimpiadi del 1992, Larry Bird ricorda sempre una gara di playoff del 1986 in cui segnò 63 punti contro di lui, dicendo che quella sera in campo c'era Dio travestito da Michael Jordan. Ha giocato e vinto contro tutti i più forti atleti della sua generazione, in quegli incredibili anni '90 che hanno visto stelle assolute della pallacanestro calcare i campi della Nba e cercare vanamente di contrastarlo.
Tutti i grandi campioni della pallacanestro di oggi, da Kobe Bryant a Lebron James, continuano a pensare a Jordan come al mito da raggiungere, alla vetta da scalare per essere ricordati come i più forti di sempre. Anche loro, come lui e come tutti quelli che lo hanno preceduto, contribuiscono con il loro talento e le loro capacità a rinnovare il basket e a farlo evolvere sempre di più. Ma difficilmente loro o qualcuno che verrà dopo di loro riuscirà a superare la fama di quel numero 23 in maglia rossa e nera, con le scarpette personalizzate dal marchio Aìr, che schiacciava sulla testa di avversari più alti di lui con la lingua di fuori. 
Buon compleanno MJ, e grazie di tutto!