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mercoledì 8 agosto 2012

PUNTO OLIMPICO N. 11

Immagine tratta da rosmarinonews.it
Giornata poco positiva per i colori azzurri in queste Olimpiadi di Londra 2012, che per una volta non hanno portato a casa altre medaglie. Vediamo chi sono stati i migliori e i peggiori di oggi.
I MIGLIORI
Josefa Idem (canoa): Credo che siano finiti gli aggettivi per descrivere questa fantastica atleta: con le gare disputate oggi, ha ufficialmente preso parte a ben 8 edizioni consecutive dei Giochi Olimpici, le prime due con la Germania Ovest, le altre con i colori azzurri. Nel 1984, a Los Angeles, aveva appena vent'anni, oggi va per i quarantotto, e gareggia contro atlete che potrebbero tranquillamente essere sue figlie. Eppure, nonostante l'avanzare degli anni, nel K1 500 metri continua a spiegare a tante avversarie come si fa a vincere: un'eliminatoria in scioltezza, senza forzare troppo, una semifinale a tutta forza, imponendosi con il suo ritmo e strappando l'ennesima finale olimpica della carriera. Giovedì mattina tornerà nuovamente in acqua, per giocarsi ancora una volta una medaglia e riscrivere la storia, dopo aver già vinto un oro, due argenti e due bronzi olimpici. E anche se non dovesse arrivare un podio, nessuno potrebbe rimproverare niente a questa fantastica atleta, perché arrivare così in alto a quest'età è già una strepitosa vittoria. Semplicemente immensa, infinita Josefa, un vero esempio di voglia e di tenacia.
Vanessa Ferrari (ginnastica): Merita di essere tra le note positive di oggi, come meritava decisamente di ottenere una medaglia e di ricevere un rispetto maggiore per quanto fatto in questi anni. Esplosa alla vigilia delle Olimpiadi di Pechino, in cui era stata la più giovane tra le atlete azzurre, aveva incontrato molte difficoltà in seguito ad un infortunio, non riuscendo in quell'edizione dei Giochi a dare il massimo. Era andata avanti, nonostante alcune difficoltà e altri problemi fisici, era tornata alla forma migliore e si era presentata a Londra con serie ambizioni di medaglia. Dopo un'ottima prova nella competizione a squadre, si era guadagnata la finale con il terzo punteggio complessivo, il che legittimava le sue velleità di podio. Purtroppo, in finale è arrivata la crudele beffa del quarto posto, benché sia giunta a pari punti con la russa Mustafina: in questi casi, infatti, prevale il voto dell'esecuzione, che è stato più alto per la russa. Una vera delusione, che la povera Vanessa non meritava.
Chris Hoy (ciclismo): Dalla disciplina che ha regalato più soddisfazioni ai padroni di casa, il ciclismo su pista, è arrivato un altro oro per la squadra britannica, e questo sa veramente di leggenda; perché con questo successo, oltre ad essere arrivata la settima vittoria inglese in dieci competizioni su pista in queste Olimpiadi, un uomo è entrato definitivamente nella storia dello sport. Con il trionfo di oggi, Sir Chris Hoy è diventato l'atleta inglese con il maggior numero di ori olimpici, ben sei, superando il fenomeno del canottaggio Steve Redgrave, che si fermò a cinque successi, e raggiungendo Bradley Wiggins al primo posto tra i britannici più medagliati di sempre. Oggi, nel keirin, ha compiuto molto probabilmente l'ultima impresa della sua strepitosa carriera: in una gara durissima contro il tedesco Levy, è stato in testa fin dall'inizio, ha subito il sorpasso dell'avversario nell'ultimo giro, ma ha avuto la forza di reagire e riportarsi davanti, tagliando per primo il traguardo. Il modo migliore per concludere la sua esperienza da atleta, ed entrare ancora di più nella leggenda dello sport olimpico e mondiale.
Ilya Zakharov (tuffi): Il sogno della Cina, che sperava di vincere per la prima volta la medaglia d'oro in tutte le gare di tuffi di questa Olimpiade, si è infranto davanti alla classe e alla bravura di questo giovane atleta russo. Classe 1991, Zakharov è un atleta emergente nella disciplina, che si è imposto per la prima volta sulla scena agli Europei del 2010 e ai Mondiali del 2011, conquistando complessivamente quattro medaglie, tutte d'argento, come se gli mancasse ancora qualcosa per arrivare al successo. Quest'anno, il salto di qualità è stato compiuto definitivamente: dopo l'argento nella piattaforma 3 metri sincro, infatti, il russo si è presentato con grande sicurezza alla prova individuale, sfidando lo strapotere del campione cinese He e del suo connazionale Qin fin dalle eliminatorie, concluse al primo posto. Dopo il secondo posto in semifinale, Zakharov si è preso la rivincita nella finale, conclusa con punteggi altissimi, tanti 10 nella parte finale della gara, e un ultimo tuffo praticamente fantastico, da oltre 100 punti. La medaglia d'oro oggi è meritatamente sua, con buona pace dei cinesi.
I PEGGIORI
Liu Xiang (atletica): L'uomo che quattro anni fa aveva fatto piangere quasi un miliardo e mezzo di persone oggi è riuscito nell'impresa di fare altrettanto. A Pechino, tutti attendevano con ansia la prestazione dell'ostacolista padrone di casa, già campione olimpico quattro anni prima e serio candidato per il bis. Invece, un infortunio al tendine d'Achille costrinse Liu a dare forfait davanti al suo pubblico, che si trovò davanti ad un vero e proprio dramma nazionale. Quest'anno era arrivato a Londra per rifarsi da quella cocente delusione, per battere tutti i rivali e dimostrare che il più forte è ancora lui. Invece la maledizione olimpica si è ripetuta: nelle qualificazioni, il cinese ha centrato in pieno il primo ostacolo, crollando a terra e dicendo subito addio ai suoi sogni di rivalsa. Una vera beffa per lui, che nella caduta si è anche infortunato seriamente, ed è stato costretto a finire la gara su una gamba sola, ricevendo poi il sostegno di tutti i suoi avversari e l'applauso dell'intero stadio, che ha capito il suo dramma e l'ha comunque incoraggiato. Il suo bacio all'ultimo ostacolo è sembrato un saluto non solo all'Olimpiade, ma alle gare in genere: vedremo se ci ripenserà.
Adam Krikorian (pallanuoto): Per qualche minuto, l'allenatore americano della squadra femminile di pallanuoto deve essersela vista davvero brutta: per un suo errore, infatti, le sue ragazze hanno rischiato seriamente di veder sfuggire i loro sogni di vittoria. Nella semifinale tra Stati Uniti e Australia, a poco più di un minuto dalla fine di una partita dura e tirata, le americane si sono portate in vantaggio, e hanno cercato di resistere a tutti gli attacchi delle australiane. A un secondo dalla fine, con il pallone uscito dal campo, l'allenatore americano chiede time out, convinto che il possesso sia per la sua squadra. Invece gli arbitri assegnano la palla all'Australia, e per regolamento, siccome non si può chiedere una sospensione se non si è in possesso del pallone, concedono un rigore contro le americane, che riporta il punteggio in parità. Una vera e propria ingenuità da parte di Krikorian, allenatore molto esperto, che per una volta è stato tradito dall'emozione e ha rischiato di compromettere tutto. Per fortuna le sue ragazze si sono imposte dopo i supplementari, scacciando i cattivi pensieri dalla testa del loro allenatore.
I giudici (ginnastica): Diciamola tutta: assistere ogni volta a dispute perché i giudici hanno favorito un atleta a danno di un altro ci ha stufati, è qualcosa che stride terribilmente con lo spirito sportivo dei Giochi Olimpici. Oggi si sono verificati due episodi paradossali, al limite del ridicolo, che gettano nuove ombre sul sistema dei punteggi e dei giudizi nella ginnastica. Prima l'americana Raisman, giunta quarta nella trave, ha ottenuto il terzo posto a danno della rumena Podor dopo un ricorso, perché il suo punteggio di partenza era stato calcolato male. Poi proprio la Podor, sfavorita e forse danneggiata in precedenza, ha ricevuto una valutazione forse eccessiva nel corpo libero a danno della nostra Vanessa Ferrari, penalizzata invece più del giusto e costretta ad un amarissimo quarto posto. Bisogna rivedere qualcosa in questo genere di competizioni, lo dicevamo per i tuffi e lo ripetiamo oggi: il giudizio umano è estremamente soggettivo, per questo bisognerebbe forse fare ricorso alla moviola per chiarirsi di più le idee e rivedere alcune scelte magari affrettate. A ciò si aggiungono le regole da cambiare: possibile che se due atlete giungono a pari punti viene premiato il giudizio sull'esecuzione rispetto al punteggio di partenza? E' normale che chi porta un esercizio più semplice ha più possibilità di fare bene. Un ex-aequo in questi casi non potrebbe essere la scelta migliore?
L'Italvolley (pallavolo): La vera delusione della giornata, stavolta senza giustificazioni di sorta, viene dalle nostre pallavoliste, che per l'ennesima volta interrompono ai quarti di finale il loro cammino nelle Olimpiadi. Dopo la vittoria nella Coppa del Mondo dello scorso anno, la squadra di Barbolini sembrava finalmente pronta a dare la caccia all'unico titolo che le mancava, ovvero l'oro olimpico. Le premesse c'erano tutto, il gruppo era forte e molto esperto, con un buon mix di atlete giovani e promettenti e di veterane probabilmente all'ultima competizione in Nazionale. Invece, dopo aver disputato una fase a gironi più che positiva, con tre vittorie e una sola sconfitta al tie-break contro la temibile Russia, l'Italia si è sciolta contro la Corea del Sud, avversaria dura ma di certo non imbattibile. Come ad Atene 2004 e a Pechino 2008, alle azzurre è mancata la tranquillità, la capacità di gestire il momento importante e il peso di una sfida a eliminazione diretta. Poca incisività in attacco, errori talvolta banali e imprecisione in fase di ricezione, cambi dalla panchina che non hanno cambiato la gara: dopo il primo set vinto, le ragazze si sono man mano spente, consegnando alle coreane il pass per le semifinali. Ancora una volta, per l'ennesima volta, la loro avventura olimpica è finita male e decisamente troppo presto.

lunedì 23 luglio 2012

LE TOUR DE...SKY!

Immagine tratta da svelo.eu

Lo sport è spesso ritenuto, a ragione, un gioco di squadra, in cui il singolo campione riesce a fare davvero la differenza solo se intorno a sé ha un gruppo di compagni in grado di aiutarlo a emergere.
Il Tour de France di ieri ha dimostrato quanto sia vera questa "equazione", sancendo il trionfo non solo di Bradley Wiggins, primo britannico a vincere la corsa, ma di tutto il team Sky, che si è stretto intorno al suo uomo di punta e l'ha letteralmente guidato fino al successo. E' stato un vero e proprio dominio, una marcia reale dall'inizio alla fine della corsa, con gli avversari che si sono mostrati impotenti davanti all'organizzazione e alla forma straripante della squadra britannica. Approfittando della sua grande abilità nelle cronometro, Wiggins ha preso un buon margine di vantaggio su tutti i suoi avversari, gestendo bene le forze quando la strada ha incominciato a salire e potendo sempre contare sul supporto di Froome, che è ormai riduttivo definire un gregario. Alla fine, l'unico che è sembrato davvero in grado di impensierirlo è stato proprio il suo compagno di squadra e connazionale, che nella tappa pirenaica di Peyragudes si è preso anche la soddisfazione di staccarlo in salita, salvo poi aspettarlo per seguire gli ordini della squadra. Già campione mondiale e olimpico in più occasioni in passato, ieri Wiggins ha coronato una carriera di per sé ricca di soddisfazioni con quella che lui stesso ha definito la sua vittoria più grande, il successo al Tour, che da diritto al ciclista vincente ad entrare nella leggenda.
Detto di Wiggins e del suo compagno Froome, primo e secondo nella classifica generale, non si può dimenticare un altro grande protagonista del team Sky: lo sprinter Mark Cavendish, campione del Mondo in carica e re delle ultime volate al Tour. Il britannico è arrivato a questa corsa con una forma non proprio ottima, ha sofferto in salita e nelle cronometro, ma non si è mai arreso alle difficoltà, e anzi con il passare dei giorni è entrato sempre più in condizione, imponendosi nelle ultime due volate con uno strapotere a dir poco imbarazzante. Anche in questo caso, ai suoi meriti si aggiungono quelli di tutta la squadra, capace di guidarlo negli ultimi chilometri e di preparare alla perfezione il terreno per il suo sprint. Il successo finale a Parigi è lo specchio dell'efficienza del team Sky: Wiggins, in maglia gialla, ha tirato nell'ultimo chilometro la volata per Cavendish, mettendosi al suo servizio ed esultando quando il compagno ha tagliato per primo il traguardo. Le Olimpiadi sono sempre più vicine, e si disputeranno in Gran Bretagna, la patria di questi tre protagonisti del Tour e la sede della loro squadra. Gli ingredienti ci sono tutti, insomma, per assistere ad un nuovo dominio del team Sky e dei suoi campioni, anche se le corse di un giorno sono sempre imprevedibili e tutto può succedere.
Restando al Tour, bisogna dire che se la forza della squadra Sky ha segnato inevitabilmente la corsa, la mancanza di avversari davvero in grado di fare la differenza ha inciso molto sulla vittoria finale di Wiggins. Il campione in carica, Cadel Evans, ha deluso tremendamente le aspettative, non mostrandosi mai in grado di tenere le ruote del rivale e concludendo il Tour con un mesto settimo posto, a oltre 15 minuti dal vincitore; dopo gli ultimi anni ad alto livello, con i successi al Mondiale e nella corsa francese proprio un anno fa, ci si aspettava qualcosa di più dal campione australiano. Alla fine, l'unico a cercare davvero di opporsi al dominio di Wiggins e Froome è stato l'italiano Vincenzo Nibali, che nelle salite ha spesso attaccato il duo di testa, anche se non è mai riuscito a metterlo davvero in difficoltà. Alla fine della corsa, per lui è arrivato un meritatissimo terzo posto finale, primo italiano a riuscirci dal secondo posto di Ivan Basso nel 2005, e la soddisfazione di aver fatto capire a tutti che è pronto per le grandi corse a tappe; il siciliano ha mostrato coraggio e grinta, a 28 anni sembra arrivato nel pieno della sua maturità sportiva, e senza la sua proverbiale difficoltà nelle cronometro avrebbe potuto fare ancora meglio. Altri due grandi protagonisti del Tour sono stati due corridori molto diversi, il francese Voeckler e lo slovacco Sagan. Il primo, esperto e già protagonista in passato nella corsa di casa, ha portato a casa due successi e la maglia a pois di miglior scalatore, nonostante la scarsa ammirazione del resto del gruppo per il suo carattere a volte sfrontato e poco amichevole; il secondo, appena ventiduenne, era alla prima partecipazione al Tour, ma ha corso come un veterano, e ha letteralmente dominato la prima settimana imponendosi in tre tappe, vincendo alla fine la maglia verde a punti e candidandosi a diventare un grande protagonista del ciclismo mondiale.
L'unica vera nota stonata di questa corsa, in fin dei conti, viene dai nostri atleti. A parte il terzo posto di Nibali, c'è poco da salvare per i corridori italiani: nessuna vittoria di tappa, quasi mai protagonisti durante le fughe o nelle volate, se si eccettua un secondo posto a testa per Petacchi e Scarponi. Non una grande premessa dunque, in vista dell'Olimpiade di Londra e del successivo Mondiale, ma gli azzurri ci hanno sempre abituati a stupire tutti, e nelle corse di un giorno possono fare la differenza. Sarà importante costruire una squadra valida e in grado di adattarsi alle varie situazioni, e sperare magari che il team Sky, per una volta, non decida di monopolizzare la gara come ha fatto con questo Tour.

giovedì 28 giugno 2012

TANTI AUGURI, FRECCIA DEL SUD!

Immagine tratta da paolomerenda.it

Con le Olimpiadi sempre più vicine, sono tanti i gloriosi ricordi di vittorie e imprese italiane che tornano alla mente. Nell'atletica leggera, che storicamente non ha mai riservato grandissime soddisfazioni agli atleti azzurri,  una delle immagini più belle è l'arrivo dei 200 metri piani di Mosca 1980, con l'incredibile rimonta di Pietro Mennea che vale un meritatissimo oro. Oggi la Freccia del Sud, come veniva soprannominato per le sue origini pugliesi, taglia un altro importante traguardo, i 60 anni di vita.
Nativo di Barletta, proveniente da una famiglia umile, Pietro Paolo Mennea si avvicina allo sport quasi subito, con la passione e con la voglia di chi viene dal nulla e ha una voglia disperata di emergere. La sua attività preferita è la corsa, con cui secondo la leggenda, appena quindicenne, si guadagna qualche soldo sfidando e battendo in velocità una Porsche e un'Alfa Romeo sulla distanza di 50 metri. Buona promessa dello sport italiano, il giovane Mennea fa il passo decisivo per diventare un grande atleta quando si trasferisce a Formia, ad appena 19 anni, e si affida agli allenamenti del professor Carlo Vittori, il maestro di tantissimi sprinter azzurri. La convivenza tra i due non è sempre facile, gli allenamenti a cui viene sottoposto Pietro sono estremamente duri e lunghi, ma i frutti di questo lavoro ben presto cominciano a farsi vedere; nel corso degli anni, l'italiano diventa uno dei migliori atleti nel panorama mondiale della velocità, soprattutto sulla distanza dei 200 metri, che diventeranno la sua specialità.
Dopo aver debuttato l'anno precedente ai Campionati Europei, vincendo un bronzo nella staffetta 4x100 metri, Mennea si mette in mostra nelle Olimpiadi di Monaco del 1972, appena ventenne, quando conquista la finale dei 200 metri e ottiene un altro terzo posto. Due anni dopo, nei Campionati Europei del 1974 che si disputano a Roma, sulla stessa distanza arriva la prima vittoria, mentre nei 100 metri e nella staffetta conquista l'argento, e la stagione successiva è ancora grande protagonista con la doppia vittoria nei 100 e 200 metri sia ai Giochi del Mediterraneo che alle Universiadi. Nel 1976 però, l'anno delle Olimpiadi di Montreal, vive un periodo di risultati deludenti, e al torneo a 5 cerchi ottiene solo il quarto posto nei "suoi" 200 metri. Superato il periodo difficile, la Freccia del Sud torna ai suoi livelli con un'altra doppietta agli Europei del 1978, ma è il biennio successivo che lo consegna alla storia.
Universiadi di Città del Messico, 1979: una data storica per l'atletica italiana. Mennea disputa la finale dei 200 metri e la vince con il tempo strepitoso di 19' e 72'', che gli vale il nuovo record del Mondo nella specialità, anche grazie all'altitudine particolare e al vento favorevole. Questo primato resisterà per 17 anni, prima di essere superato la prima volta da Michael Johnson nel 1996, ed è tuttora il record europeo su questa distanza, a oltre 33 anni di distanza. Con queste premesse, e anche grazie all'assenza degli americani, Pietro si presenta alle Olimpiadi di Mosca 1980 con i favori del pronostico, e non può fallire l'appuntamento con l'oro. Le premesse però non sembrano buone, visto che viene eliminato in semifinale nei 100 metri e nella finale dei 200 parte in ottava corsia, la peggiore. Ma con una gara intelligente e grazie ad una progressione micidiale, Mennea rimonta e sopravanza l'inglese Alan Wells, che sembrava destinato alla vittoria, e si prende con merito l'alloro olimpico. A completare una grande Olimpiade, arriverà anche il bronzo nella staffetta 4x400.
Con l'avanzare degli anni, Mennea si avvia lentamente verso la fine gloriosa della sua carriera. Dopo un primo ritiro per dedicarsi agli studi, torna alle corse e ottiene un bronzo nei 200 metri e un argento nella staffetta 4x100 ai Mondiali del 1983, mentre alle Olimpiadi di Los Angeles conquista la quarta finale consecutiva sempre nei 200 metri, record assoluto per un atleta olimpico. Non ha gloria, arriva solo settimo, e decide di ritirarsi nuovamente dalle corse, per poi fare marcia indietro e tornare a gareggiare nelle Olimpiadi di Seul 1988, dove non lascia il segno ma ha l'onore di portare la bandiera azzurra durante la cerimonia inaugurale. In totale, nella sua lunga carriera sportiva, Mennea vanta anche 3 titoli di campione nazionale nei 100 metri, 11 nei 200 e 1 nella staffetta 4x100.
Lasciata l'attività sportiva, Pietro si toglie molte soddisfazioni anche nella vita privata, conseguendo 4 lauree (in Scienze Politiche, Giurisprudenza, Scienze dell'Educazione Motoria e Lettere) e esercitando la professione di avvocato e dottore commercialista; viene anche eletto al Parlamento Europeo dal 1999 al 2004, e insieme alla moglie Manuela Olivieri da vita alla Fondazione Pietro Mennea, una Onlus che si occupa di aiuti umanitari, sensibilizzazione dei giovani allo sport e lotta al doping. Un personaggio a tutto tondo insomma, che si è fatto largo anche al di fuori dello sport, ma che per tanti appassionati italiani rimarrà sempre la Freccia Azzurra, il giovane ragazzo arrivato dal Sud e diventato grande a costo di sacrifici e fatica. Un atleta che oggi compie 60 anni, ma che non ha mai smesso di correre veloce per la sua strada.

mercoledì 13 giugno 2012

TEOFILO, EROE DI UN POPOLO

Immagine tratta da dailymail.co.uk

Ci sono frasi che rimangono nella storia, non solo della persona che le pronuncia. Ci sono rifiuti che possono far diventare un uomo un mito per tutto il suo popolo. Ci sono incontri che possono entrare nella leggenda anche quando non vengono disputati. A metà anni Settanta, il pugile cubano Teofilo Stevenson decide di rifiutare i soldi e restare un dilettante pur di non tradire l'amore del suo popolo, che da allora lo considera un eroe nazionale. Ieri, a causa di un malore, è venuto improvvisamente a mancare, e l'intera isola caraibica si è vestita a lutto per ricordare il suo campione.
Nato nel 1952, Teofilo inizia ad appassionarsi al mondo della boxe fin da ragazzino, grazie al padre, anche lui pugile dilettante in gioventù. Fisico imponente, grande agilità sul ring, viene notato dall'ex-campione John Herrera, che lo allena e gli fa affrontare avversari molto più esperti, convinto che questo l'aiuterà a sviluppare al meglio le sue doti. Il giovane si fa notare a nemmeno vent'anni, quando conquista il bronzo nei Giochi Panamericani del 1971, e l'anno dopo si impone al panorama mondiale vincendo l'oro alle Olimpiadi di Monaco, riportando Cuba nell'elite della boxe. Dopo questo successo, la carriera di Stevenson decolla definitivamente, e negli anni seguenti arrivano altre vittorie di rilievo, come quella nei Mondiali di casa del 1974, nei Panamericani del 1975, e il bis alle Olimpiadi di Montreal del 1976. E' universalmente riconosciuto come il più forte peso massimo tra i dilettanti, e i grandi promoter americani sognano di portarlo al professionismo. In quel periodo, sul ring si affrontano quattro tra i più grandi campioni di sempre nella storia della boxe: Joe Frazier, George Foreman, Ken Norton, Larry Holmes, e soprattutto Muhammad Alì.
Il sogno di organizzatori è proprio quello di far affrontare l'ex Cassius Clay, fresco dei successi contro Foreman e Frazier, con il giovane pugile cubano, in uno scontro epico che farebbe impazzire i tifosi di tutto il Mondo. L'offerta è molto allettante, si parla di ben 5 milioni di dollari per Teofilo se decide di diventare professionista, e il gigante vacilla, tanto che l'incontro sembra davvero imminente. Invece, alla fine, Stevenson fa marcia indietro, rifiuta il contratto e sceglie di rimanere nel dilettantismo. La sua decisione è ormai entrata nella leggenda per via della frase con cui l'ha spiegata al mondo: "Cos'è un milione di dollari in confronto all'amore di 8 milioni di cubani?" E' una risposta che riempie d'orgoglio il popolo caraibico, ed eleva definitivamente il pugile al ruolo di eroe nazionale per questo "gran rifiuto", per aver preferito la sua gente ai soldi e alla ricchezza.
Negli anni seguenti, Stevenson conferma tutta la sua classe con altre importanti vittorie, confermandosi campione in tutte le competizioni: dapprima trionfa ai Mondiali del 1978, poi si impone ai Panamericani del 1979, infine entra nella leggenda ottenendo il terzo oro consecutivo, nelle Olimpiadi di Mosca nel 1980. E' il secondo pugile a riuscire nell'impresa dopo l'ungherese Laszlo Papp, che trionfò per tre volte consecutive dal 1948 al 1956, e solo un altro pugile cubano, Felix Savon, farà altrettanto vincendo l'oro a Barcellona 1992, Atlanta 1996 e Sidney 2000. Dopo 11 anni di successi, Teofilo subisce la prima sconfitta importante nel 1982, quando ai Mondiali viene battuto dall'italiano Francesco Damiani, rinunciando al sogno di conquistare il terzo successo consecutivo nel torneo. Anche la speranza di realizzare un incredibile poker nelle Olimpiadi sfuma, stavolta non per colpa sua: Cuba, insieme agli altri Paesi filosovietici, boicotta il torneo che si disputa a Los Angeles nel 1984. Stevenson ottiene un'ultima, importante vittoria nel 1986, quando ai Mondiali vince un altro oro, stavolta nella categoria Supermassimi, poi un nuovo boicottaggio cubano alle Olimpiadi del 1988 lo convince a ritirarsi, a 36 anni.
Dopo aver ricoperto incarichi importanti nella federazione pugilistica cubana, ieri Teofilo si è arreso a un malore improvviso, un infarto che lo ha mandato KO a poco più di sessant'anni. Il Mondo della boxe si è stretto nel dolore, ricordando questo grande campione, capace di vincere 301 dei 321 incontri disputati durante la sua carriera, ma più di tutti lo piangono i suoi fratelli cubani, che con lui perdono un vero e proprio eroe nazionale. In tanti sostengono che, se avesse deciso di diventare un professionista, sarebbe diventato sicuramente uno dei migliori pugili di sempre, ma questo rimpianto non ha mai sfiorato il vecchio Teofilo. Per lui, niente era più importante dell'amore della propria gente.

giovedì 7 giugno 2012

IN RICORDO DEL MOZART DEI CANESTRI

Immagine tratta da basketcase.blogosfere.it

Oggi, in Croazia, è una giornata di lutto nazionale, perché ricorre un triste anniversario: la morte del Mozart dei Canestri, Drazen Petrovic. Un tragico incidente stradale, il 7 giugno del 1993, se l'è portato via a nemmeno 29 anni di età, gettando nello sconforto e nel dolore migliaia di tifosi di tutto il Mondo, appassionati da quello che il giovane cestista croato riusciva a fare sul parquet.
Nato a Sebenico, città costiera nel sud della Croazia, Drazen sviluppa da subito un amore viscerale per lo sport e per la pallacanestro, ispirato anche dal fratello maggiore Aleksandar (visto anche in Italia da giocatore e allenatore). La sua è una passione a dir poco maniacale: si sveglia tutte le mattine alle sei, va nella palestra del paese, di cui ha le chiavi, e si allena per alcune ore a tirare e dribblare le sedie prima di correre a scuola. A quindici anni entra nella squadra della sua città, e presto conquista un posto da titolare, trascinando la sua formazione a disputare due finali consecutive di Coppa Korac, entrambe perse contro il Limoges. Nel 1984 si trasferisce al Cibona di Zagabria, con cui si impone definitivamente tra le stelle del basket europeo: in 4 stagioni vince un Campionato jugoslavo, tre Coppe di Jugoslavia, due Coppe dei Campioni e una Coppa delle Coppe, e in una singola partita di campionato segna la bellezza di 112 punti. Desideroso di nuove sfide, nel 1988 si trasferisce in Spagna al Real Madrid, dove in un solo anno ottiene Coppa di Spagna e Coppa delle Coppe, dimostrandosi un vero e proprio dominatore, un giocatore di livello superiore rispetto a tutti gli altri in Europa.
La sua voglia di competere è tale che nell'estate del 1989 decide di compiere il grande salto: si dichiara eleggibile per il Draft NBA, e viene scelto dai Portland Trail Blazers, la squadra di Clyde Drexler. La sua è un'esperienza difficile, perché in quel periodi i giocatori europei godono di scarsa considerazione in America, e infatti Drazen è considerato poco più di una riserva; gioca 12 minuti a partita, per lo più nel "garbage time" (ovvero a risultato già acquisito) e nel suo ruolo viene chiuso da almeno altri 4 giocatori. Per questo, neanche il raggiungimento della Finale NBA del 1990 (persa con Detroit) lo soddisfa, e così nel gennaio 1991 viene scambiato con i New Jersey Nets. Qui, Petrovic trova la fiducia dell'ambiente e il minutaggio che cercava, e subito ripaga tutti con prestazioni di altissimo livello. La sua media punti lievita oltre i 20 a partita, il suo ruolo di leader in campo non è più contestato da nessuno, e alla fine della stagione 1993 viene addirittura inserito nel terzo quintetto della NBA, riconoscimento storico per un cestista europeo.
Anche con la Nazionale arrivano importanti soddisfazioni per lui. Nelle prime competizioni che disputa con la maglia della Jugoslavia, conquista un bronzo nelle Olimpiadi del 1984, nei Mondiali del 1986 (in cui è anche eletto MVP) e negli Europei 1987. Poi, con l'arrivo in panchina di Dusan Ivkovic e l'emergere di altri grandi talenti come Paspalj, Kukoc, Radja e Divac, oltre ai giovani Djordjevic, Danilovic e Savic, Petrovic diventa il leader di una squadra fantastica, che mette in mostra un basket fenomenale e si impone come una grande realtà a livello mondiale. Nel 1988 arriva l'argento alle Olimpiadi contro la grande URSS di Sabonis, poi solo vittorie, agli Europei casalinghi del 1989 e ai Mondiali 1990. All'apice del successo, però, sulla squadra si abbatte il dramma della guerra che sta esplodendo in Jugoslavia tra croati e serbi, dilaniando il Paese e i suoi abitanti. Dopo la separazione dalla Serbia, Petrovic diventa il capitano della neonata nazionale croata, che trascina ad uno storico argento contro il Dream Team USA del 1992, e nell'estate successiva guida i suoi nelle qualificazioni agli Europei.
E' proprio in questo contesto che arriva il tragico appuntamento con il destino. Dopo una partita in Polonia, Petrovic e compagni devono recarsi in Germania per il match successivo, ma lui decide di non seguire i compagni in aereo, e di recarsi sul posto in macchina con la fidanzata. La donna però, a causa del maltempo e della scarsa conoscenza delle strade, si spaventa mentre è alla guida, e provoca l'incidente che costa la vita a Drazen. E' il 7 giugno 1993, il giocatore croato muore sul colpo a 28 anni. La notizia fa il giro del Mondo, in Croazia l'intera Nazione è sotto choc per la scomparsa del suo simbolo più grande, in America tutta la NBA lo compiange e i New Jersey Nets ritirano la maglia numero 3 in suo onore. Sulla sua lapide, molti anni dopo, riuscirà a piangere anche Vlade Divac, cestista serbo che per anni aveva condiviso la stanza e una fortissima amicizia con Drazen, prima che la guerra e alcune incomprensioni li dividessero per molti anni, e la morte impedisse ai due la riappacificazione (la NBA ha raccontato la loro storia in uno splendido documentario, Once Brothers).
Oggi ricorre il diciannovesimo anniversario della sua scomparsa. Il basket europeo e mondiale è molto cambiato nel frattempo, la NBA ha definitivamente aperto le porte a giocatori provenienti da altri continenti, alcuni dei quali (Parker, Nowitzki, Gasol) hanno ormai acquisito il ruolo di autentiche superstar, quasi alla pari con gli americani. Ma nessuno ha mai dimenticato il Mozart dei Canestri, il micidiale cecchino che non si tirava mai indietro e affrontava ogni nuova sfida con grinta e decisione, convinto di vincere. Con il suo esempio, è diventato un mito per tutti i cestisti d'Europa, ha aperto le porte dell'America a tanti ragazzi talentuosi, alcuni provenienti da quella che era la sua Jugoslavia. Ancora oggi, tanti anni dopo la sua scomparsa, la Croazia lo piange e ricorda commossa quel suo giovane figlio che, a detta della sua stessa madre, era un angelo nella vita, e un diavolo quando si trovava sul parquet.

domenica 3 giugno 2012

TANTI AUGURI, MISTER!

Immagine tratta da gazzetta.it

Ci sono momenti in cui la storia e la leggenda sembrano fondersi, nel raccontare episodi tanto incredibili quanto decisivi per la nascita di un mito dello sport. Capita ad esempio che un ragazzino di 12 anni, colpito alla mano da un proiettile durante la Seconda Guerra Mondiale, venga indirizzato dai medici a praticare il basket per la riabilitazione e divenga uno dei più grandi di sempre nella storia di questo sport. Quel bambino si chiamava, e si chiama, Alessandro Gamba, per tutti Sandro, e proprio oggi, 3 giugno 2012, festeggia gli 80 anni di vita. 
Pallottola o no, Sandro si appassiona alla palla a spicchi fin da ragazzino, esordendo nella serie A italiana con la maglia dell'Olimpia Milano, squadra in cui giocherà ininterrottamente per 13 anni; sul campo, conquista ben 10 scudetti, e ha l'onore di indossare la maglia azzurra anche nelle Olimpiadi casalinghe di Roma del 1960. La parte più importante e gloriosa della sua carriera, però, inizia nel 1963, anno in cui decide di lasciare il gioco per diventare allenatore. Rimane a Milano, dove per molte stagioni ricopre il ruolo di vice del mitico Cesare Rubini, suo vecchio compagno di squadra, e partecipa ai successi italiani ed europei della mitica Simmenthal. Nel 1973, finalmente maturo, diventa allenatore di una delle rivali storiche di Milano, la Varese di Dino Meneghin, Bob Morse e Aldo Ossola, con cui vince due scudetti e due Coppe dei Campioni, dimostrando di essere uno dei migliori nel suo ruolo. 
Dopo essersi trasferito per alcune stagioni a Torino, che riporta in serie A, nel 1979 assume l'incarico più importante della sua carriera: la guida della Nazionale Italiana, in sostituzione di un altro mito della panchina, Giancarlo Primo. L'eredità è importante, perché la squadra ha raggiunto ottimi risultati sia a livello europeo che mondiale, e il gruppo dispone di ottimi giocatori come Meneghin, Villalta, Sacchetti e Marzorati, cui si aggiungono in seguito i giovani Riva e Brunamonti. Sotto la guida di Gamba, gli azzurri compiono il definitivo salto di qualità, entrando nella storia come una delle migliori squadre di sempre nella storia della palla a spicchi, e centrando successi che poche volte in futuro verranno eguagliati. Nell'Olimpiade di Mosca del 1980, l'Italia ottiene una storica medaglia d'argento (sfruttando anche l'assenza dei fortissimi americani), e tre anni dopo a Nantes si aggiudica il Campionato Europeo, battendo avversari durissimi come la temibile Yugoslavia e la Spagna in finale. 
Il ciclo si chiude nel 1985 con un'altra medaglia, stavolta di bronzo, poi Gamba cede la panchina a Valerio Bianchini e torna ad allenare in serie A, stavolta alla Virtus Bologna. E' una parentesi breve e senza successi, la crisi della Nazionale lo richiama al suo posto solo due anni dopo, ma il ritorno non è fortunato come in passato: arriva l'argento agli Europei casalinghi del 1991, ma per ben due volte viene fallita la qualificazione olimpica. Così il tecnico lascia definitivamente gli Azzurri, sostituito dal giovane emergente Ettore Messina, suo vice nel biennio a Bologna. In totale, sotto la sua gestione la Nazionale ha partecipato a 7 Europei, 2 Olimpiadi e 1 Mondiale, ottenendo un oro, due argenti e un bronzo. Con oltre 400 panchine, Gamba è l'allenatore con più presenze da tecnico azzurro. In riconoscimento di questi strepitosi risultati, nel 2006 è entrato a far parte della prestigiosissima Hall of Fame, che include i più grandi personaggi di sempre nella storia del basket mondiale, dove fa compagnia al suo grande maestro Rubini e al suo vecchio giocatore Meneghin, capitano della sua Italia vincente. 
Oggi, come detto, il mitico Sandro festeggia l'importante traguardo degli 80 anni di vita. Fa piacere celebrare una grande icona del basket come lui, soprattutto in un periodo difficile come questo per la nostra Nazionale, reduce da una serie di cocenti delusioni a livello europeo e mondiale. Intanto, rimaniamo fiduciosi per una pronta ripresa della nostra squadra nell'immediato futuro, e a distanza di tanti anni continuiamo a "benedire" quel proiettile che ha trasformato un dodicenne di Milano in uno dei più grandi allenatori italiani di sempre.